Il giornalismo nell’era di Facebook e Google: una questione di (s)fiducia

È evidente che il giornalismo stia affrontando una profonda crisi economica, le cui cause vanno principalmente ricercate nei cambiamenti tecnologici e socio-culturali dell’età contemporanea. Non solo abbiamo smesso di informarci sui mezzi “tradizionali” perché tanto si trova tutto online e gratis (questo giustificherebbe principalmente una flessione nell’acquisto dei quotidiani), ma l’abbiamo fatto anche per comodità di fruizione e, soprattutto, per una crescente sfiducia nei confronti dei media mainstream. Infatti, come ha già ribadito Mentana nel corso di un suo intervento all’International Journalism Festival, si è ormai persa (soprattutto tra i giovani) la figura del giornalista come mediatore di fiducia.

Ma quali sono le ragioni di questa sfiducia? Certamente, l’avvento delle nuove piattaforme di disintermediazione che ha evidenziato tutte le carenze dei sistemi tradizionali, soprattutto in fatto di qualità e reputazione; un aspetto, questo, che, per usare le parole di Rachel Botsman, ha alterato la nostra fiducia nelle “istituzioni” (ovvero nei brand: marchi di moda, media, partiti politici) alimentando invece il credito dato ai nostri pari.

Nel campo dell’informazione questo ruolo è stato svolto da Facebook e dai social network in generale, il cui avvento ha completamente stravolto il flusso di informazioni (da verticale a orizzontale), rendendo i lettori non più semplici “ricettori passivi” di notizie, ma protagonisti, tanto che, secondo il sito datamediahub:

“Il 78% ha fiducia nelle notizie condivise online da conoscenti e familiari mentre quella negli “esperti accademici” è al 65% e addirittura al 44% per i giornalisti. Ennesima evidenza della distanza che permane tra pubblico, lettori e giornalisti nell’era dei social, mal utilizzati dai media e da chi ci lavora”.

In un’era dove l’informazione unidirezionale sta venendo meno, quindi, qual è il ruolo e il futuro del giornalismo e come è possibile costruire la propria identità professionale? Mi piace molto la definizione contenuta nell’articolo di Katharine Viner del The Guardian che afferma:

“Yochai Benkler, che ha testimoniato al processo Manning lo scorso luglio, ha dichiarato che il giornalismo […] non è un’organizzazione esclusiva o un’identità individuale. È un comportamento”.

Il giornalista, trasmettendo il suo messaggio, dovrà cercare di non dare semplici notizie, ma di creare valore attraverso delle storie che colpiscano il pubblico sul piano dell’emozione, della riflessione e dell’informazione. Dovrà, quindi, essere un faro e una fonte di ispirazione per i suoi lettori, garanzia di un contenuto bello (narrato bene), buono (utile) e giusto (intellettualmente onesto). Aveva proprio ragione Pulitzer quando affermava:

Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce”.

Ed aveva ragione anche Einstein dicendo che dalle difficoltà nascono le opportunità. Paradossalmente, infatti, in questa fase così buia per il giornalismo tradizionale, non ci sono mai state così tante opportunità. Le aziende reclamano a gran voce giornalisti e scrittori per la produzione di contenuti editoriali di qualità sui loro canali di comunicazione istituzionale (tra i quali ci sono proprio i social network), tanto che molte delle nuove figure professionali legate al digitale sono, appunto, dei giornalisti. Questo perché di fronte ad una clientela sempre più informata e consapevole, diventa fondamentale per le aziende saper informare i propri clienti in modo appropriato, coniugando le classiche strategie di comunicazione con le caratteristiche tipiche dell’informazione giornalistica: un trend oggi noto come brand journalism.

Passando dalla professione all’industria del giornalismo, invece, la questione è più complicata. Alcune testate (tra le quali spicca proprio il The Guardian) hanno adottato la formula della membership che, da un certo punto di vista, tiene vivo quel rapporto di fiducia tra lettore e mediatore di cui parlavamo. L’Economist, d’altro canto, ha scelto di divulgare le semplici notizie in modo gratuito, introducendo un “gettone” a pagamento per accedere alla storia. Diverso è il caso di Blendle (definito il “Netflix del giornalismo“), un portale che raccoglie il meglio del giornalismo internazionale dove l’utente paga solo quello che legge (questione di centesimi) e solo se è soddisfatto (ricordate i concetti di bello, buono e giusto?). Anche questo implica che ci sia buon senso tra le parti e non dico certo che sia facile, ma potrebbe funzionare. E chissà che in un prossimo futuro i lettori non si dichiarino disposti a finanziare essi stessi la produzione di contenuti di qualità attraverso il crowdfunding.

Insomma, una cosa è certa: non ci basta più l’informazione nuda e cruda, la notizia. Quella può darcela chiunque. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è quella sensazione che proviamo subito dopo aver finito di leggere un bel libro, quando il nostro desiderio di conoscenza è finalmente appagato e ci sentiamo immediatamente più liberi. Ecco, di questo abbiamo bisogno. E a me piace pensare che il giornalismo possa darci un grossa mano.