L’idea di redigere questo articolo nasce quasi naturalmente da una serie di osservazioni quotidiane sui comportamenti di alcune fette di pubblico di fronte ad offerte di contenuti informativi a pagamento. Ho notato, infatti, che mentre alcuni si chiedono “perché il meglio debba essere riservato solo a chi paga” – ignorando che, ormai, quasi tutte le piattaforme prevedono, oltre ad una base di servizi for free, anche una serie di servizi premium – altri lasciano invece trapelare disinteresse, insofferenza o pregiudizi politici (che, senza entrare nel merito, possono rivelarsi più o meno fondati). Tali reazioni, tuttavia, mi hanno spinto ad affrontare di petto la questione del diritto all’informazione per cercare di capire se, al di là dei verdetti popolari, qualcosa stia veramente cambiando sul piano fenomenologico. D’altronde, siamo spesso abituati a guardare l’informazione dal punto di vista di chi la fa, ma non di chi la riceve. La domanda che mi sono posto, quindi, è la seguente: oltre ad essere un servizio, per chi fruisce le notizie l’informazione è anche un diritto?
Analizzando la questione sul piano storico e giuridico, essa sembra possedere già questi connotati, tanto che la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza del 7 dicembre 1994 n. 420, ha dichiarato che è necessario “garantire il massimo di pluralismo esterno, al fine di soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto del cittadino all’informazione“. Nella pratica, però, questo aspetto “cozza” con principi altrettanto importanti, quali la libertà di stampa, il diritto alla riservatezza e la tutela delle fonti, argomento complesso e al centro di molte controversie. Infatti, come afferma la dott.ssa Sala nel suo articolo per “Media Laws”:
“If journalists have to disclose names of the sources – without any kind of control by the authorities – no one will reveal sensible information ever again” (Se i giornalisti dovessero rivelare i nomi delle proprie fonti – senza alcun tipo di controllo da parte delle autorità – allora nessuno rivelerebbe più informazioni sensibili).
In altre parole, non si può sempre divulgare tutto (anzi, a volte sarebbe auspicabile una maggiore sensibilità e un minor accanimento al “dovere di cronaca”, soprattutto in alcune circostanze nefaste). Ma allora cosa vuol dire esattamente “diritto all’informazione”? Ed esiste veramente, nella stampa, un diritto all’informazione nel senso passivo del termine (cioè “essere informati”)?
Io credo che, parlando di “diritto all’informazione”, il legislatore abbia voluto insistere sulla necessità di costruire un sistema dell’informazione che non sia mendace o ingannevole (ne sono un chiaro esempio il tradizionale conflitto tra informazione e pubblicità e l’obbligo di rettifica), rendendo così il cittadino consapevole e partecipe della vita sociale del suo tempo. D’altro canto, però, è impossibile non riconoscere come il ruolo degli operatori dell’informazione rappresenti anche un importante servizio alla collettività. Il lavoro stesso di mamma RAI, ad esempio, è definito “servizio pubblico” (che detto così sembra pure brutto).
In questo senso, credo sia interessante osservare l’impatto causato dall’avvento di internet sulla natura stessa dell’informazione. Infatti, da quando giornali e agenzie di stampa hanno iniziato a caricare online le notizie in modo gratuito per paura di essere bruciati sul tempo dai nuovi media, il web è diventato a tutti gli effetti il principale veicolo di diffusione dei contenuti e, nella molteplicità dei suoi canali, ha contribuito a logorare la (già bassa) reputazione dei media tradizionali. Nel giro di pochi anni, quindi, il crollo della fiducia riposta in essi dai lettori e le nuove, illimitate possibilità di accesso all’informazione, hanno portato molti a chiedersi se valga ancora la pena pagare per essere informati (ragionamento, questo, legato in particolare all’informazione di base; diverso, come sappiamo, è il caso delle riviste specialistiche). La cosa, che potrebbe sembrare assurda e nefasta per l’intero sistema, in realtà potrebbe elevare l’informazione ad un livello superiore.
Non è un caso che, con la risoluzione del 5 luglio 2012, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sia intervenuto sulla questione, affermando che le libertà fondamentali di ciascun individuo devono poter essere esercitate anche nel mondo virtuale e ha quindi stabilito che non è possibile vietare in alcun modo l’utilizzo di internet (si tratterebbe a tutti gli effetti di una forma di censura). Si tratta di uno sviluppo certamente interessante e, allo stesso tempo, “spaventoso”, perché ci impone di ripensare, anche in termini concettuali e di sostentamento, tutto il sistema dell’informazione (oltre alla pubblicità potrebbe entrare in gioco anche il crowdfunding).
Ad oggi, comunque, l’informazione costituisce un insieme plurale di diritti che si intrecciano e si limitano vicendevolmente, garantendo così il rispetto delle libertà che tutelano. Allo stesso tempo, però, è impossibile negare che si tratti anche di servizio pubblico nell’accezione più romantica del termine, perché dà voce ai più deboli (o, almeno, dovrebbe) e funge da watchdog dei decisori politici, a tutela degli interessi generali della collettività.