Nel 2009, due giornalisti americani, Rob Walker e Joshua Glenn, decidono di fare un piccolo esperimento letterario-antropologico. Si siedono alla scrivania, vanno su eBay e acquistano una serie di oggetti dal valore medio di 1.25$ al pezzo. Contattano poi 200 autori tra giornalisti e scrittori e chiedono a ciascuno di essi di scrivere una storia su un oggetto a scelta tra quelli appena comprati. Dopo un po’ di tempo, tornano al computer e rimettono questi oggetti su eBay, vendendoli tutti per un totale di quasi 8.000$.
L’esperimento, illustrato accuratamente nel sito significantobjects.com, dimostra come lo storytelling sia uno degli strumenti di creazione del valore più potenti a nostra disposizione. Attraverso delle semplici storie, infatti, Walker, Glenn e il loro audace seguito di scrittori sono riusciti a creare intorno ad oggetti di modesto valore, un immaginario di significati capace di stimolare una serie di reazioni chimiche ed emozionali universali.
Nel film “Noi e la Giulia” accade qualcosa di molto simile. Un gruppo di ragazzi rileva un casale di campagna con l’intento di trasformarlo in agriturismo, ma si ritrova a fare i conti con la malavita locale. Quando Vito (un buffo camorrista) si presenta da loro per chiedere il pizzo a bordo della sua Alfa Romeo Giulia 1300, questi decidono di chiuderlo in cantina e di nascondere la macchina sotto terra, dimenticandosi però la radio accesa. Quando l’attività comincia ad ingranare, Diego (interpretato da Luca Argentero) – per giustificare la musica proveniente dall’auto sotterrata – inventa sul momento una romantica leggenda. Di lì a poco, il numero di ospiti e visitatori, attratti dalla bellezza della storia e dal desiderio di riuscire ad ascoltare tale melodia, aumenta a dismisura, regalando ai protagonisti un successo inaspettato.
Ma perché avviene tutto ciò? Come racconta David JP Phillips nel suo talk “the magical science of storytelling”, lo storytelling stimola la produzione di tre ormoni: dopamina, ossitocina ed endorfina, rispettivamente responsabili delle seguenti reazioni:
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aumento dell’attenzione e maggiore capacità di memoria (motivo per cui in antichità lo storytelling veniva usato per tramandare preziose conoscenze di generazione in generazione attraverso la voce di cantori e aedi);
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maggiore empatia con chi racconta la storia e/o con il suo protagonista e, quindi, maggiore fiducia e generosità nei suoi confronti (ciò è particolarmente importante nel marketing, dove la fiducia è diventata, ormai, un’importante leva decisionale);
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stato di euforia/piacere e abbandono fisico.
Detto ciò, è chiaro che nel mondo del marketing questo strumento ha un potenziale formidabile perché permette ai consumatori di identificarsi in una storia o in uno specifico personaggio e, di conseguenza, anche nel brand che quella storia o quel personaggio rappresenta o descrive. Ciò è particolarmente valido per quei brand che sono ricchi di contenuti e di valori e per i quali non si rivela necessario arrangiare una strategia di comunicazione artificiosa, come ad esempio per i prodotti industriali.
Eppure, persino Amazon, che sulla vendita di questo tipo di prodotti ha fondato un impero globale, sta adottando una strategia simile. Con lo slogan “milioni di prodotti, milioni di storie“, infatti, l’azienda di Seattle ha mandato in onda degli spot pubblicitari, lunghi solo pochi minuti, che raccontano delle storie basate su reali recensioni.
Discorso valido anche nel mondo del retail. Molte attività commerciali, infatti, spingono oggi sulla centralità dell’esperienza rispetto al semplice acquisto “mordi e fuggi” (come racconto io stesso in questo articolo per Wired Italia), stimolando così nel consumatore reazioni ed emozioni simili a quelle prodotte dallo storytelling: maggiore empatia con il venditore, maggiore interesse nei prodotti esposti e, quindi, maggiore inclinazione all’acquisto.
Anche la vita quotidiana non è poi così diversa: tutti noi ci serviamo dello storyelling per ricordarci, ad esempio, di prendere tutto il necessario quando facciamo la borsa per la palestra o quando prepariamo la valigia prima di un lungo viaggio: svolgiamo questi piccoli compiti in modo “meccanico”, ma creativo, creando nella nostra mente percorsi e sequenze che anticipano azioni future e che stimolano, così, la nostra capacità di memoria. Lo facciamo perché, come sottolinea l’esperta di storytelling Francesca Marchegiano, “se il linguaggio è un’abilità appresa, la narrazione è innata. L‘uomo ha una mente narrante“. Ecco perché ricordiamo così facilmente la nostra favola preferita anche a distanza di lustri.
Insomma, seppur in diversi format e canali, lo storytelling è considerato oggi una delle tecniche di marketing più potenti a nostra disposizione, ma anche quella che riesce a raccontare meglio la complessità di significati di un brand e a coinvolgere gli ascoltatori sia dal punto di vista informativo che emotivo. Molto spesso, infatti, quando un brand racconta la sua storia, il ruolo di attore protagonista non spetta a quest’ultimo, ma al consumatore che, più o meno consapevolmente, si identifica in quell’insieme di valori espressi dal marchio (conoscenza, autorealizzazione, diversità di pensiero, aiutare il prossimo ecc).
D’altronde, dire a un cliente “compra” è come dire al bambino “dormi”. Tutti siamo stati bambini e tutti vogliamo prima ascoltare la storia.